IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TRENTO 
                           Sezione civile 
 
    Composto dagli Ill.mi sigg.ri Magistrati: 
    dott. Roberto Beghini - presidente relatore; 
    dott. Giuseppe Barbato - giudice; 
    dott. Giuliana Segna - giudice; 
    Letti gli atti del proc. n. 5143/2013 RG, pronunzia  la  seguente
ordinanza  di  rimessione  degli  atti  alla  eccellentissima   Corte
costituzionale  in   relazione   alla   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, primo comma, della legge 14 aprile  1982,
n. 164; 
1. La rilevanza della questione. 
    La rilevanza della questione risiede nel fatto che, nel  presente
giudizio, la ricorrente, avente sesso anagrafico femminile,  premesso
di non avere figli e di aver non contratto matrimonio, ha  chiesto  a
questo Tribunale le rettificazione di attribuzione di sesso ai  sensi
dell'art. 1, primo  comma,  della  legge  14  aprile  1982,  n.  164,
mediante  ordine  all'ufficiale  di  stato  civile  del   comune   di
residenza, di modificare l'atto di nascita,  nel  senso  che  risulti
quale genere quello maschile e quale prenome uno dello  stesso  tipo.
Aggiunge di aver percepito, sin da quando aveva 14 anni, un'identita'
maschile, anche facendosi chiamare con un nome del genere. Precisa di
essersi gia' sottoposta al trattamento  con  testosterone  nonche'  a
tutti gli interventi chirurgici demolitivi possibili  per  il  genere
biologico   femminile,   precisamente   mastectomia   bilaterale    e
isterectomia. Allega certificato medico da cui ella risulta "affetta"
da "transessualismo" [F 64.0 secondo ICD 9]. 
    Il  Procuratore  della   Repubblica   e'   rimasto   inizialmente
contumace. 
    Con ordinanza del 19-20 agosto 2014, questo Tribunale ha disposto
la sospensione impropria  del  presente  giudizio,  in  attesa  della
decisione della assai simile questione di costituzionalita' sollevata
da questo stesso Collegio con ordinanza 19-20 agosto 2014 pronunziata
nel proc. n. 1471/2013 (pendente  tra  altra  parte  ed  il  medesimo
Procuratore della Repubblica). 
    Con ricorso in riassunzione depositato il  15  ottobre  2014,  la
ricorrente ha  ora  insistito  nuovamente,  previa  revoca  di  detta
ordinanza di sospensione impropria; per l'accoglimento della  domanda
di rettificazione di attribuzione di sesso. 
    All'udienza del 16 dicembre 2014, la causa e' stata riservata per
la decisione ed il pubblico ministero ha espresso  parere  favorevole
all'accoglimento della predetta domanda giudiziale. 
    Delineato in tal modo l'oggetto del giudizio,  questo  Tribunale,
richiamando qui la cit. ordinanza 19-20 agosto  2014  di  rinnessione
gia' pronunziata nel  predetto  proc.  1471/2013,  evidenzia  che  la
rilevanza della nuova questione di costituzionalita'  che  ora  viene
sollevata, risiede nel fatto che anche  in  questo  caso  la  domanda
giudiziale deve essere decisa sulla  base  del  cit.  art.  1,  primo
comma, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (come modificato  dall'art.
110, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396), in virtu' del quale, come  noto
«la rettificazione si fa in forza di sentenza del  tribunale  passata
in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso  da  quello
enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni
dei suoi caratteri sessuali». 
    Dal tenore letterale della norma, emerge  che  la  rettificazione
puo' aver luogo solo previa modificazione dei caratteri sessuali, per
tali dovendosi necessariamente intendere i caratteri sessuali primari
(vale a dire l'apparato genitale, in base  all'esame  del  quale,  al
momento della nascita,  si  e'  soliti  individuare  il  sesso  della
persona). In  assenza  della  modificazione  dei  caratteri  sessuali
primari, la rettificazione non puo' aver luogo. 
    E' ben vero infatti che l'art.  31,  comma  quarto,  del  decreto
legislativo 1° settembre 2011, n. 150, prevedendo che «quando risulta
necessario  un  adeguamento  dei  caratteri  sessuali  da  realizzare
mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con
sentenza  passata  in  giudicato»,   ammette   che   il   trattamento
medico-chirurgico possa essere solo eventuale (come lascia  intendere
l'avverbio «quando»); ma cio' non gia'  perche'  possa  ottenersi  la
rettificazione   di   attribuzione    di    sesso    a    prescindere
dall'adeguamento dei caratteri sessuali primari, bensi' solo  perche'
possono esservi casi concreti nei quali i caratteri sessuali  primari
risultano gia' modificati (ad esempio, in  caso  di  intervento  gia'
praticato all'estero o per ragioni congenite). Se  cosi'  non  fosse,
non  si  comprenderebbe  l'espressione  «a  seguito  di   intervenute
modificazioni dei suoi caratteri sessuali», di cui al  cit.  art.  1,
primo comma, della legge 14 aprile 1982, n. 164.  Se  il  legislatore
avesse  inteso  consentire  alla   persona   la   rettificazione   di
attribuzione di sesso a  prescindere  dalla  modificazione  dei  suoi
caratteri sessuali primari, non avrebbe menzionato tale modificazione
nella parte finale della norma in  esame.  Il  suo  tenore  letterale
sarebbe stato diverso, verosimilmente uguale a «la rettificazione  si
fa in forza di  sentenza  del  tribunale  passata  in  giudicato  che
attribuisca  ad  una  persona  sesso  diverso  da  quello   enunciato
nell'atto di nascita», senza alcun riferimento alla modificazione dei
caratteri sessuali della persona. 
    Il legislatore del 1982 ha dunque  richiesto  che  vi  sia  piena
corrispondenza tra gli organi sessuali primari della  persona,  e  la
nuova  identita'  sessuale   a   costei   attribuita   dall'autorita'
giudiziaria. 
    Il cit. art. 1, primo comma, della legge 14 aprile 1982, n.  164,
esclude che sia ammessa la rettificazione di attribuzione  di  sesso,
in assenza della modificazione dei caratteri sessuali  primari  della
persona (modificazioni  che  possono  essere  congenite,  fortuite  o
realizzate  mediante   intervento   medico-chirurgico).   Il   tenore
letterale della norma, non consente alcun altra interpretazione. 
    Sia pure con una certa riluttanza, il Collegio ricorda che talune
interpretazioni ritengono  sufficienti  le  terapie  ormonali;  altre
richiedono interventi sulle masse muscolari,  sulla  laringe,  oppure
sulle mammelle;  altre  ancora  esigono  l'asportazione  completa  di
entrambi i testicoli. Tali interpretazioni,  tuttavia,  non  sembrano
trovare alcun sostegno nel diritto positivo, atteso che il cit.  art.
1, primo comma, della legge 14  aprile  1982,  n.  164,  non  prevede
alcuna ipotesi e/o distinzione del  genere  (e  sotto  tale  profilo,
l'assoluta    genericita-indeterminatezza    della     nozione     di
«modificazione di caratteri sessuali», sembra confliggere con  l'art.
3 Cost.). Dette interpretazioni appaiono inoltre meno  persuasive  di
quello  che  -  a  prima  vista  -  si  potrebbe   pensare,   perche'
«accontentandosi» di terapie o interventi chirurgici  meno  invasivi,
finiscono per ritenerli comunque necessari, evitando di affrontare il
problema di fondo sotteso alla materia, vale  a  dire  l'esistenza  o
meno del diritto di ogni persona alla propria identita'  sessuale,  a
prescindere da qualsivoglia terapia o intervento chirurgico, sia pure
non troppo invasivo (ammesso che ne possa esistere qualcuno). 
    La lettera del cit. art. 1, primo comma, della  legge  14  aprile
1982, n. 164, non precisa in che cosa consistano le modificazioni dei
caratteri  sessuali  necessarie  per   ottenere   la   rettificazione
dell'attribuzione di sesso, sicche'  pare  ragionevole  ritenere  che
alcuna distinzione possa essere  neppure  effettuata  dall'interprete
circa tali modificazioni. Il legislatore sembra  allora  esigere  che
l'aspetto esteriore del soggetto che chiede la rettificazione, sia  -
almeno apparentemente - il piu'  possibile  anatomicamente  uguale  a
quello del diverso genere sessuale al quale  chiede  di  appartenere.
Come perspicacemente  evidenziato  dal  Tribunale  di  Potenza  nella
sentenza n. 157 del 20 febbraio 2015,  richiedendo  la  modificazione
dei caratteri sessuali, la norma intende  attribuire  rilevanza  alla
percezione esterna dell'identita' sessuale da parte dei  terzi  nella
sfera sociale, apparendo  prevalente  «la  considerazione  del  sesso
anatomico  (tale  risultante  per  conformazione   naturale   o   per
adeguamento chirurgico), che porta -  ad  esempio  -  la  persona  ad
essere   scelta   come   partner   maschile   o   femminile   secondo
l'orientamento di un terzo. E tanto vale  a  maggior  ragione  quando
vengono in rilievo le risultanze degli atti dello stato  civile  che,
proprio in ragione della loro funzione pubblicitaria a  garanzia  dei
diritti dei terzi, non possono registrare un dato soggettivo in luogo
di  un  dato  oggettivo,  documentando  la  realta'   psicologica   a
preferenza della realta' biologica, la psicosessualita'  a  discapito
del sesso anatomico, l'identita' di genere  al  posto  dell'identita'
sessuale (in senso stretto)». 
    La norma pare quindi richiedere interventi non solo «demolitivi»,
ma  anche  «ricostruitivi»,  al  fine  di  rendere  la  conformazione
anatomica   della   persona   il   piu'    possibile    esteriormente
corrispondente   a   quella   del   diverso   sesso   da   attribuire
anagraficamente.  Ad  avviso  di  questo   Tribunale,   dall'assoluto
assordante  silenzio  normativa,  nessun  altra   interpretazione   -
costituzionalmente orientata - sembra possibile. 
    Nella  fattispecie  concreta,  allora,   il   Collegio   dovrebbe
rigettare la domanda  di  rettificazione  di  attribuzione  di  sesso
proposta dalla ricorrente, in quanto,  come  accennato,  ella  si  e'
sottoposta a trattamento con  testosterone  nonche'  agli  interventi
chirurgici  demolitivi   (precisamente   mastectomia   bilaterale   e
isterectomia),  ma  non   all'intervento   chirurgico   ricostruttivo
dell'organo genitale maschile. 
    Di qui la rilevanza della questione di costituzionalita' del cit.
art. 1, primo comma, della legge 14 aprile 1982, n. 164, nella  parte
in cui subordina la rettificazione  di  attribuzione  di  sesso  alle
intervenute  modificazioni  dei  caratteri  sessuali  della   persona
istante (dovendosi interpretare la norma nel senso  che  essa  impone
modificazioni anche ricostruttive). 
2. La non manifesta infondatezza. 
    Ritiene il  Collegio  che  l'inciso  «a  seguito  di  intervenute
modificazioni dei suoi caratteri sessuali», di cui al  cit.  art.  1,
primo  comma,  della  legge  14  aprile  1982,  n.  164,  richiedendo
interventi chirurgici anche ricostruttivi, si ponga in contrasto  con
gli artt. 2, 3, 32 e 117,  primo  comma,  Cost.  (l'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 8 della Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, di seguito CEDU). 
    Per una esaustiva comprensione  della  fattispecie,  puo'  essere
utile premettere che, come di  recente  evidenziato  dalla  dottrina,
ogni persona ha un sesso «anagrafico» attribuitogli al momento  della
nascita in base a un esame  morfologico  degli  organi  genitali.  In
questo modo, il sesso anagrafico viene  fatto  coincidere  col  sesso
«biologico». Tuttavia, se per la maggior parte degli  individui  tale
attribuzione rispecchia  fedelmente  tutte  le  componenti  sessuali,
facendo cosi' coincidere il sesso «legale» con quello reale,  possono
verificarsi ipotesi nelle quali questa coincidenza non  sussiste.  In
questi casi, il sesso attribuito anagraficamente,  diventa  una  mera
finzione, perche' la componente  psicologica  si  discosta  dal  dato
biologico.  Quando  cio'  avviene,  si  manifestano   le   molteplici
componenti della sessualita' umana, la quale e' al contempo genetica,
fenotipica, endocrinica, psicologica, culturale e  sociale.  Il  dato
fondamentale non e' piu' il  sesso  biologico  o  anagrafico,  ma  il
genere, che si puo' definire quale «variabile socio-culturale»,  vale
a dire «qualita' della persona in base alla  quale  della  stessa  si
puo' dire che e' maschile o femminile». Il  genere  puo'  discostarsi
dal sesso biologico e cambiare col  tempo  in  varie  declinazioni  e
direzioni, nel qual caso si puo' parlare di «espressione»  o  «ruolo»
di genere. Quando vi e' una «percezione» di non collimazione  tra  il
genere assegnato alla nascita (sulla base del sesso «biologico») e il
genere cui la persona acquista la consapevolezza di appartenere, tale
mutamento opera sul piano dell'identita' di genere. Nel  passato,  la
medicina riteneva che ogni dissociazione tra il sesso  e  il  genere,
configurasse  una  vera  e  propria  patologia  (il  c.d.   «disturbo
dell'identita' di  genere»,  DIG),  risolvibile  solo  attraverso  il
mutamento, verso il sesso opposto, di tutto cio'  che  era  possibile
cambiare. Attraverso la c.d. «triadic therapy», infatti, alla persona
veniva chiesto di portare a conclusione  un  processo  in  tre  fasi:
un'esperienza reale nel ruolo del sesso  desiderato,  il  trattamento
ormonale e la riassegnazione chirurgica dei caratteri  sessuali  (cd.
RCS).  Solo  chi  completava  tutti  e  tre  questi   steps,   poteva
considerarsi «guarito» e dunque ammesso tra i soggetti meritevoli  di
considerazione come persone del sesso opposto. 
    Il cit. art. 1, primo comma, della legge 14 aprile 1982, n.  164,
nella parte in cui subordina la  rettificazione  di  attribuzione  di
sesso alla intervenuta modificazione  dei  caratteri  sessuali  della
persona   istante,   richiedendo    interventi    chirurgici    anche
ricostruttivi, costituisce la piena  e  matura  espressione  di  tale
mentalita'. 
    L'imposizione di un  determinato  trattamento  medico,  sia  esso
ormonale  ovvero  di  RCS,  costituisce   tuttavia   una   grave   ed
inammissibile limitazione al riconoscimento del diritto all'identita'
di genere (maschile o femminile). Infatti, il fine del raggiungimento
dello stato di benessere psico-fisico della persona, al  quale  tende
il riconoscimento sociale, e' la rettificazione  di  attribuzione  di
sesso, e non la riassegnazione sessuale sul  piano  anatomico  (dalla
persona  non  sempre  voluta).  In  altra  prospettiva,  al  fine  di
identificare una persona come femmina o maschio, non si procede ad un
esame dei suoi organi genitali - atto  che  costituirebbe  una  grave
intromissione nella vita privata della  persona  -  bensi'  dei  suoi
documenti. Ne deriva che il trattamento clinico non influisce,  sotto
un profilo generale, sul riconoscimento sociale nella  stessa  misura
nella  quale  vi  contribuisce,  invece,  il   mutamento   di   sesso
anagrafico. Va poi evidenziato che, come riferisce la scienza medica,
sia il trattamento ormonale sia la RCS, sono - notoriamente  -  molto
rischiosi per la salute umana. La transizione da donna a  uomo  (c.d.
Female to Male,  F2M)  comporta  ipercoagulabilita'  del  sangue  con
rischio  di  embolia  polmonare,  infertilita',  aumento   di   peso,
patologie epatiche e labilita' emotiva; la transizione opposta  (Male
to Female,  M2F),  puo'  portare  a  infertilita',  acne  e  malattie
cardiovascolari. Non puo' nemmeno trascurarsi che vanno in ogni  caso
considerate anche le preesistenti condizioni di salute della persona,
le quali potrebbero sconsigliare ogni tipo di intervento  chirurgico,
con la conseguenza che, in casi del genere,  ella  non  potrebbe  mai
ottenere la rettificazione  dell'attribuzione  di  sesso  (se  non  a
completo discapito della propria salute). 
    Cio' evidenziato in punto di fatto, e' noto che  l'art.  8  della
CEDU sancisce il diritto al rispetto della vita privata e  familiare,
prevedendo che «ogni persona ha diritto  al  rispetto  della  propria
vita privata e familiare,  del  proprio  domicilio  e  della  propria
corrispondenza. Non puo' esservi ingerenza di una autorita'  pubblica
nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista
dalla  legge  e  costituisca  una  misura  che,   in   una   societa'
democratica, e' necessaria alla sicurezza  nazionale,  alla  pubblica
sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa  dell'ordine
e alla prevenzione dei reati, alla protezione della  salute  o  della
morale, o alla protezione  dei  diritti  e  delle  liberta'  altrui».
Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo,
il diritto all'identita' sessuale (rectius, diritto all'identita'  di
genere), rientra a pieno titolo nella tutela prevista dal cit. art. 8
della CEDU. Ad esempio, nella sentenza  11  luglio  2002,  n.  28.957
(Christine Goodwin contro Regno Unito), la  Corte  ha  affermato  che
«77.  Occorre  anche  riconoscere  che  puo'  sussistere   un   grave
pregiudizio  alla  vita  privata  quando  il  diritto  nazionale   e'
incompatibile con un aspetto importante dell'identita' personale (v.,
mutatis mutandis, la sentenza 22 ottobre 1981 nel caso Dudgeon contro
Regno Unito, serie A n. 45, par. 41). La  tensione  e  lo  squilibrio
emotivo provocati dalla  divergenza  tra  il  ruolo  ricoperto  nella
societa' da un transessuale  operato  e  la  condizione  imposta  dal
diritto che rifiuta di riconoscerne il mutamento di sesso non possono
essere considerati, a  giudizio  della  Corte,  un  inconveniente  di
secondaria importanza discendente da una formalita'. Vi e'  conflitto
tra la realta' sociale e il diritto che pone il transessuale  in  una
situazione anomala, suscitandogli sensazioni  di  vulnerabilita',  di
umiliazione e di angoscia». Nella  medesima  sentenza,  la  Corte  ha
anche evidenziato che «90. Cio' posto,  la  dignita'  e  la  liberta'
dell'uomo   costituiscono   il   nocciolo   della   Convenzione.   In
particolare, nel contesto dell'art.  8  della  Convenzione,  dove  la
nozione di  autonomia  personale  riflette  un  importante  principio
sotteso all'interpretazione delle garanzie di tale  disposizione,  la
sfera personale di ciascun individuo e' protetta, compreso il diritto
per ciascuno di decidere i particolari  della  propria  identita'  di
essere umano (vedi, specialmente, la sentenza 29 aprile 2002 nel caso
Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, par. 62). Nel XXI  secolo,
la facolta' per i transessuali di godere pienamente, al pari dei loro
concittadini, del diritto allo sviluppo  personale  e  all'integrita'
fisica  e  morale,  non  puo'  essere   considerata   una   questione
controversa  che  richiede  del  tempo  per  poter  comprendere  piu'
chiaramente i problemi in gioco». 
    Come noto, per giurisprudenza costante, la  contrarieta'  di  una
norma  interna  alla   CEDU,   da'   luogo   ad   un   incidente   di
costituzionalita' con riferimento all'art. 117,  primo  comma,  Cost.
(v. Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007, nn. 311 e 317 del 2009, n. 93
del 2010, nn. 1, 113, 236 e 303 del 2011, e nn. 15 e 78 del 2012). 
    Passando  quindi  alla  Costituzione  italiana,  il  suo  art.  2
sancisce  il  fondamentale  principio  secondo  cui  «la   Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo», ed eleva  «a
regola fondamentale dello Stato, per tutto quanto attiene ai rapporti
tra la collettivita' e i singoli, il riconoscimento di  quei  diritti
che formano patrimonio irretrattabile della persona umana [e  che...)
appartengono all'uomo inteso come essere libero» (v.  sentenza  della
Corte costituzionale n. 11 del 1956): diritti  che,  stante  il  loro
«carattere  fondante  rispetto  al  sistema  democratico  voluto  dal
costituente» (v. Corte cost. n. 366 del 1991),  non  possono  «essere
sovvertiti o modificati nel  loro  contenuto  essenziale  neppure  da
leggi di revisione costituzionale o da  altre  leggi  costituzionali»
(v. Corte cost. n. 1146 del 1988), perche' «appartengono  all'essenza
dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».. 
    Nell'alveo dei diritti inviolabili  la  Corte  costituzionale  ha
ricondotto sia «il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la
propria  identita'  sessuale,  da  ritenere  aspetto  e  fattore   di
svolgimento  della  personalita'»,  che  gli   altri   membri   della
collettivita' sono tenuti a riconoscere «per dovere  di  solidarieta'
sociale» (v. Corte cost. n.  161  del  1985);  sia  il  diritto  alla
liberta'  sessuale,  poiche',  «essendo  la  sessualita'  uno   degli
essenziali modi di espressione della persona  umana,  il  diritto  di
disporne liberamente e' senza dubbio un diritto soggettivo  assoluto»
(v. Corte cost. n. 561 del 1987). 
    Anche l'art. 2 Cost., come il  cit.  art.  8  CEDU,  riconosce  e
tutela  il   diritto   all'identita'   sessuale   (rectius,   diritto
all'identita' di genere), nel senso che ogni persona ha il diritto di
scegliere la propria identita'  sessuale,  femminile  o  maschile,  a
prescindere dal dato biologico. 
    Il sospetto di incostituzionalita' del cit. art. 1, primo  comma,
della legge 14 aprile 1982, n. 164, sorge in quanto, tale norma,  pur
riconoscendo  il  diritto  della  persona  di  scegliere  la  propria
identita' sessuale, femminile o maschile,  subordina  l'esercizio  di
tale diritto alla modificazione dei propri caratteri sessuali primari
(da  effettuarsi   tramite   intervento   chirurgico   demolitivo   e
ricostruttivo). 
    Ad  avviso  di  questo  Tribunale,  subordinando  il  diritto  di
scegliere la propria identita' sessuale alla modificazione dei propri
caratteri sessuali primari  da  effettuarsi  tramite  un  doloroso  e
pericoloso intervento chirurgico sia demolitivo che ricostruttivo, si
finisce col pregiudicare  irreparabilmente  l'esercizio  del  diritto
stesso,  vanificandolo  integralmente,  considerando  anche  che   le
condizioni di  salute  della  persona  potrebbero  sconsigliare  ogni
terapia ed intervento chirurgico, con la conseguenza che in casi  del
genere la persona, senza alcuna colpa, non potrebbe mai  ottenere  la
rettificazione dell'attribuzione di sesso. 
    Pare  evidente  il   conflitto   tra   il   diritto   individuale
all'identita'  sessuale  (e  la   relativa   autodeterminazione),   e
l'imposizione del requisito della  modifica  dei  caratteri  sessuali
primari, necessario per ottenere la rettificazione  dell'attribuzione
di sesso. 
    La concezione per cui al fine di vedersi riconosciuto il  proprio
diritto all'identita' sessuale, una  persona  debba  -  per  forza  -
sottoporsi a  trattamenti  chirurgici  altamente  invasivi,  tali  da
mettere in pericolo la propria salute, confligge  insanabilmente  sia
con il cita art. 8 CEDU, sia con l'art. 2 Cost.,  i  quali  entrambi,
come  visto,  consentono  incondizionatamente  ad  ogni  soggetto  di
vedersi riconosciuta la propria identita' sessuale. Detta  concezione
confligge anche con l'art. 32 Cost., poiche', al fine  dell'esercizio
di un proprio diritto fondamentale (quale  il  diritto  all'identita'
sessuale),  impone  al  soggetto  di  sottoporsi  ad  un  trattamento
chirurgico, del tutto non  pertinente  ne'  necessario  al  fine  del
libero esercizio  del  diritto  in  esame.  Imporre  al  soggetto  di
sottoporsi ad  un  trattamento  chirurgico  o  sanitario  doloroso  e
pericoloso per la propria salute, equivale  a  vanificare  o  rendere
comunque eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto alla  propria
identita' sessuale. Considerando che i citt. art. 8  CEDU  e  art.  2
Cost. tutelano la ricongiunzione dell'individuo con il proprio genere
quale risultato del procedimento  di  rettificazione,  non  puo'  non
riconoscersi che - come ha fatto da tempo anche la scienza  medica  -
la  modificazioni  dei  caratteri  sessuali  primari  non  sempre  e'
necessaria e che, anzi, alla luce dei diritti «in gioco», la  persona
deve avere il diritto di rifiutarla. A questo  Tribunale  sembra  che
non  vi  sia  ragionevolezza  ne'  logicita'  nel   condizionare   il
riconoscimento  del  diritto  della  personalita'  in  esame,  ad  un
incommensurabile prezzo per la salute della persona  (artt.  3  e  32
Cost.). Il Collegio si rende conto  delle  conseguenze  pratiche  che
comporterebbe una declaratoria di incostituzionalita' (nel senso che,
allora,  l'esame  «esteriore»  della  persona,  sarebbe  inidoneo   a
rilevare  il  suo  sesso);  ma  cio',  a  ben  osservare,  non   puo'
ragionevolmente suscitare alcuna perplessita', perche'  in  un  paese
civile l'identita' sessuale viene accertata tramite  i  documenti  di
identita' e non certo per mezzo di un'ispezione corporale. Una  volta
che lo Stato riconosce il diritto della persona a cambiare il proprio
sesso anagrafico (cio' che indubbiamente ha fatto la  cit.  legge  14
aprile 1982, n. 164), subordinare l'esercizio di  tale  diritto  alla
sottoposizione  della  persona  a  dolorosissimi  e   pericolosissimi
trattamenti sanitari, significa pretendere da lei  di  commettere  un
atto di violenza sul proprio corpo. Una  volta  riconosciuto  che  il
diritto alla rettificazione dell'attribuzione di  sesso,  costituisce
un vero e proprio diritto della personalita', non  sembra  consentito
al  legislatore  ordinario  subordinarlo  a   restrizioni   tali   da
pregiudicarne gravemente l'esercizio, fino a vanificarlo. 
    Tali concetti sono stati ribaditi dal  Parlamento  europeo  nella
risoluzione del 12 marzo 2015  sulla  relazione  annuale  di  diritti
umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell'Unione
europea in materia.  Al  punto  n.  163,  il  Parlamento  europeo  ha
invitato  la  Commissione   e   l'OMS   ad   eliminare   i   disturbi
dell'identita'  di  genere  dall'elenco  dei   disturbi   mentali   e
comportamentali, auspicando altresi' l'intensificazione degli  sforzi
per porre fine alla patologizzazione delle identita' transgender.  Al
successivo n. 164, il Parlamento medesimo ha accolto  con  favore  il
crescente  sostegno  politico   per   la   messa   al   bando   della
sterilizzazione quale requisito per il riconoscimento  giuridico  del
genere, come espresso dal relatore speciale delle Nazioni Unite sulla
tortura, condividendo il punto di vista secondo  cui  tali  requisiti
dovrebbero essere trattati  e  perseguiti  come  una  violazione  del
diritto  all'integrita'  fisica  nonche'  della  salute  sessuale   e
riproduttiva e dei relativi diritti.